Breve storia del tartufo

Il tartufo, tubero preziosissimo, non solo ha fama di essere delizioso al palato (e all’olfatto) e costoso, ma è anche circondato da un alone misterioso se non addirittura misterico. Anthelme Brillat-Savarin nel suo “La fisiologia del gusto” ,1825, (trattato ironico e filosofico sulla gastronomia, farcito, è il caso di dire, di aneddoti e raccomandazioni di un “pontefice della decolpevolizzazione dell’epicureo moderato”, così J.F. Revel) ne lamentava la natura di “merce volubile”: “visto che il prezzo è un po’ basato sul capriccio, forse si stimerebbero meno se se ne avesse una gran quantità a buon prezzo. <<Rallegratevi, cara amica!>>, dicevo un giorno alla signora di V…, <<alla Società d’incoraggiamento è stato presentato un telaio meccanico con cui si faranno merletti stupendi che non costeranno quasi nulla>>. <<Eh!>> mi rispose la bella signora con uno sguardo di sovrana indifferenza <<se i merletti costeranno poco, credete che vorremmo portare tali straccetti?>>”. Inoltre, il tartufo cresce sotto terra, come si diceva dell’oro che “maturasse” in giacimenti sotterranei; si credeva prodotto in seguito alla caduta di fulmini e gli venivano affibbiate doti afrodisiache. Lo si sente, lo si odora prima ancora di vederlo: la sua ricerca è come un percorso iniziatico di affioramento in superficie, dalle recondite e incomprensibili viscere della terra, della verità, del premio conquistato. Eppure il tartufo godette di alterne fortune. Apprezzatissimo nella cucina imperiale romana, aulica e opulenta, come testimonia il “De arte coquinaria” di Marco Gavio Apicio (I sec. d.C.) (che dedica il XXV cap. del I libro alla conservazione del tubero e il XXXI dello stesso libro alla salsa più opportuna con cui servirlo e cioè a base di pepe, coriandolo, ruta, miele e olio, mai crudo), visse un lungo interregno d’oblio da cui lo trarrà fuori la cucina del Rinascimento dove allietava i pasti delle ricche e sfarzose corti. E’ l’Ottocento, però, in Francia, il tempo e il luogo d’elezione dei tartufi (e di caviale, champagne, ostriche, ecc.), nelle tavole sia dei nobili che dei ricchi borghesi. Come dice Brillat-Savarin: “nessuno osa dire di essere stato in un banchetto ove non ci fosse almeno un piatto tartufato (…) insomma, il tartufo è il diamante della cucina”. E i migliori tartufi di Francia, ci assicura lo stesso, “provengono dal Pèrigord e dall’alta Provenza; verso la metà di gennaio hanno tutto il loro aroma”. Mentre quelli del Bugey, sempre buoni, sono poco conservabili e quelli della Borgogna e del Delfinato sono di qualità scadente: duri e poco profumati. Attenzione allora: “due cose non sono mai eguali, e così vi sono tartufi e tartufi”. La conclusione sulla dissertazione sui tartufi di Brillat-Savarin è la seguente: “è un alimento sano e gradevole e che, preso con moderazione, va giù come una lettera nella buca postale”. A meno di prestare poca attenzione alla masticazione, come nell’episodio del signor S…, gaudente e vorace ma anziano (e sdentato) amante dei piaceri della buona tavola che, invitato dall’autore ad una cena in cui “non avevo fatto economia di tartufi e questi apparvero sotto l’egida di un tacchino vergine che ne era abbondantemente imbottito”, rischia di lasciarci le penne, non per aver fatto indigestione di tartufi, ma per il fattoc he un grosso frammento di uno di questi gli era rimasto impigliato nel piloro. L’episodio, che è bene leggere nella sua interezza (come tutto il libro) per il suo spasso, è però indice di un certo grado di “democratizzazione” dell’uso culinario del tartufo, tipico della “grand cuisine” francese del Primo e del Secondo Impero: l’utilizzo eccessivo e spregiudicato impoverisce le tartufaie, abbassa qualità e pezzatura media del pregiato tubero e dà il via alle prime contraffazioni commerciali (sarà un caso se in francese “truffe” e in inglese “truffle” il termine tartufo suona simile alla nostra italiana “truffa”?) spacciando per pregiati esemplari locali i meno invitanti esemplari d’importazione. I tartufi perdono cioè la loro centralità (come nell’antichità di portata a sé stante per finire con l’essere come uno dei tanti elementi di una salsa o di un intingolo). A tal riguardo apriamo una (l’ennesima) parentesi. Abbiamo consultato l’opera “Il cuoco maceratese” di Antonio Nebbia (prima edizione, 1779, uno degli antesignani, in Italia, del più noto Artusi), fortemente debitrice della cucina dei nostri cugini d’Oltralpe. Qui tocchiamo con mano il fatto che il rinnovamento gastronomico del XVIII sec., rifiutando le combinazioni agrodolci (fino ad allora le uniche), abbia inventato la salsa a base grassa (con burro come elemento primario) anziché acida. Tra le numerose salse originali create dal Nebbia, spicca quella detta “princisgras” che poi in dialetto è divenuta “vincisgrassi”, il piatto forse più noto della cucina marchigiana. Tale ricca salsa (pensata per essere destinata al figlio primogenito, il continuatore della stirpe nobile), composta di farina, latte e tartufi affettati, serviva per condire le “lasagne di princisgras” insieme a burro e parmigiano. Di tale ricetta, nella regione stessa (e ne siamo testimoni diretti in quanto residenti) se ne sono perse totalmente le tracce in quanto soppiantata dalla più classica ed economica “lasagna alla bolognese”, la cui differenza macroscopica è l’utilizzo del pomodoro, la presenza del ragù di carne e la perdita del tartufo. Ritornando a noi, solo più tardi, la “nouvelle cuisine”, a dispetto del nome, donerà al tartufo l’antico splendore riscoprendolo come alimento a sé stante e isolandolo, presentandolo in modo più naturale possibile. Chiusa questa “stagione”, il re dei tuberi è tornato a presentarsi mimetizzato in una moltitudine di salse (che ne contengono solo una minima percentuale) come ingrediente di condimento per nobilitare piatti generalmente molto semplici.