La religione del party / “Uomini da cocktail” – Anthony Powell

“Quasi che avessero tutti udito il corno fatato di Astolfo, il duca inglese cantato dall’Ariosto, il cui suono rendeva pazzi di terrore fino a spingere al suicidio… sono tutti scervellati e matti, come ubriachi…”  [Robert Burton, “Anatomia della malinconia”]

Pastore anglicano e bibliotecario nel Christ Church College di Oxford, Robert Burton (1577-1640) pubblicava il suo trattato “The Anatomy of Melancholy” nel 1621, un affresco enciclopedico di natura filologica e fisiologica, dall’antichità ai tempi moderni, su quello che è l’emblema per eccellenza dell’angoscia esistenziale relativamente alla condizione umana: la malinconia. La citazione sopra riportata e tratta dall’opera in questione apre il romanzo “Afternoon Men” (1931) dello scrittore inglese Anthony Powell, famoso in patria per quell’opera monumentale in ben 12 volumi sulla vita e i costumi inglesi del Novecento che è “A Dance to the Music of Time“, da noi solo parzialmente tradotta. La traduzione italiana degli “uomini del pomeriggio” sceglie liberamente di trasporre in “Uomini da cocktail” che meglio rende lo stile di vita dei protagonisti del romanzo, uomini e donne decadenti impegnati esclusivamente nell’organizzazione e nella partecipazione di party serali e in chiacchiere fatue e vuote fino a tarda notte potendo permettersi di “vivere” esclusivamente dal pomeriggio in poi. In “Uomini da cocktail”, come è ovvio, l’alcool scorre a fiumi e le volute del fumo delle perennemente accese sigarette (siamo nei ruggenti anni Venti di quella che Gertrude Stein definiva la lost generation) circondano le pigre e malinconiche esistenze di un gruppo di amiche e amici incapaci di intravvedere un seppur minimo scopo alle proprie vite che non sia quel “tardo-dandysmo” apaticamente frivolo ed estetizzante, effimero e disperato, di rifiuto del reale e fuga in una spensieratezza dalle ore contate. E’ un “party novel” che non ha nulla della grandeur, nella tragedia e nella nobiltà di intenti, dei contemporanei romanzi americani di Hemingway o Scott Fitzgerald (“Fiesta” o “Il Grande Gatsby“) ma è solo dissipazione, abisso palindromico (“Palindromo” è il titolo, significativo, dell’ultimo capitolo), condanna all’inutilità dell’eterna ripetizione, cicaleccio senza costrutto e insulsaggine su cui aleggia un’aria di morte irrealizzabile (uno dei protagonisti, il pittorucolo Raymond Pringle di fronte all’estremo atto del suicidio si rivela, infatti, per quello che è, cioè un buono a nulla). Il personaggio principale, Atwater, mediocre impiegato museale e donnaiolo inetto, frustrato in ogni conquista femminile, e amico di Pringle, è la figura, per ammissione dell’autore, di più chiara ispirazione autobiografica, il cui vagabondare serale e tardo-notturno, tiene in piedi una trama scarna fino all’osso, costellata quasi solo di dialoghi telegrafici e stanchi, ammorbati di abitudine e di incontri scadenti, di sottile e perfida ironia, tra smarrimento e culto per il non-sense. Un romanzo di profonda “amoralità”, cinico e disilluso, magnifico nel tracciare il ritratto di un’epoca tragica e di una generazione capace di vivere solo al presente. Crepuscolare.

Uomini da cocktail – A. Powell, traduz. F. Pece – Elliot 2014, 256 pag. – 13,50 €

Non sempre Davide batte Golia. L’inquinamento luminoso in “Luna e Gnac” di Italo Calvino

Sebbene se ne parli molto poco in relazione ad altre forme di inquinamento ambientale, quello luminoso, possiede un’impronta sull’ecosistema ben più ampia di quanto il senso comune creda. Insieme al cambiamento climatico possiede infatti un non trascurabile ruolo nella scomparsa degli insetti volanti che per orientarsi, muoversi, nutrirsi e riprodursi dipendono dalla luce naturale. Chiariamo però subito un aspetto: cosa intendiamo per “inquinamento luminoso”? L’International Astronomical Union ha stabilito, per convenzione, che si è in presenza di inquinamento luminoso quando la luce artificiale, presente e propagata, nel cielo notturno supera di almeno il 10% la luminosità naturale. Solo nel 2001 viene realizzato per la prima volta un atlante mondiale dei livelli di inquinamento luminoso e, sotto questo punto di vista, la nostra Pianura Padana insieme ad alcune aree della Corea del Sud risultano tra le aree più inquinate tra tutte quelle dei paesi membri del G20. Ma l’inquinamento luminoso non solo ha effetti sull’alterazione dei cicli vitali di diverse specie di animali e piante, ma anche, ovviamente, su alcune funzioni fondamentali del nostro organismo quali l’importante ciclo sonno-veglia (con conseguente alterazione dell’orologio biologico), quello del sonno vero e proprio (riducendone durata e quindi intaccando la qualità del riposo) e quello della produzione della melatonina, sostanza dalle proprietà neuro e cardio-protettive. L’inquinamento luminoso è quindi un fenomeno che non riguarda solo chi, per professione o vocazione come gli astronomi e i poeti, si trova d continuo col naso all’insù, ma un po’ tutti noi. Questo concetto era chiaro, tra gli altri, al Calvino di “Marcovaldo ovvero Le stagioni in città” del lontano 1963 che, alla questione aveva dedicato uno dei racconti più belli della raccolta, “Luna e Gnac”. L’antologia ha per tema la quest, in mezzo alla giungla di cemento e asfalto, della Natura, da parte del protagonista, l’ingenuo idealista Marcovaldo, sottoproletario alle prese con le storture del progresso e del boom economico dell’Italia anni Sessanta. Ma la Natura, sperimenta sulla propria pelle Marcovaldo, batte ormai inesorabilmente in ritirata tanto da far sì che la trama dei racconti sia scandita da una delusione dopo l’altra per un mondo che ormai rimane, forse, solo nel suo immaginario. Nonostante ciò, come il Candido di Voltaire, Marcovaldo, batosta dopo batosta, non cede mai di un millimetro al pessimismo, disposto sempre com’è, cavaliere errante senza macchia né paura, a cercare in ogni dove quello spiraglio poetico-umano che si nasconde anche nelle più buie situazioni. Ostinato a resistere come i gatti di un altro celebre racconto della raccolta (“Il giardino dei gatti ostinati”), Marcovaldo incarna la critica ad ogni idillio, industriale e campestre, entro l’impianto di una lezione umanissima, venata di giocosa malinconia, atteggiamento che forse oggi, mutati scenari ed epoche (in peggio, ovviamente) continua a meritare di essere riscoperto e portato a galla.

Dell’impianto suddetto risente (e qui torniamo al nostro tema che è quello dell’inquinamento luminoso) “Luna e Gnac”, novella i cui tempi narrativi sono tarati sull’alternanza tra la notte naturale della durata di venti secondi e quella, artificiale, sempre da venti secondi, segnata dalla scritta al neon della pubblicità “SPAAK-COGNAC”, visibile solo a metà per la copertura data dal palazzo di fronte. Questo è lo scenario notturno cittadino che si presenta quotidianamente davanti agli occhi della famiglia di Marcovaldo, (affacciata alla claustrofobica mansarda in cui abita) e che altera gli stati d’animo dei suoi componenti tra malinconia ed eccitazione, contemplazione e pulsione psichedelica. Fino a quando il piccolo Michelino ha un’idea: bersagliare un po’ per gioco un po’ per sfida la scritta luminosa col ghiaino lanciato dalla sua fionda-giocattolo. Quando sembra che il firmamento possa tornare padrone incontrastato della volta celeste, ecco che, il mattino successivo, degli elettricisti, per conto della ditta SPAAK, ripristinano la scritta. Senza voler rapinare il lettore del gusto di quello che accadrà nel concitato finale, diremo solo che la vicenda verrà incanalata in un binario inaspettato per Marcovaldo e la sua famiglia che poco potranno gioire della loro vittoria di Pirro schiacciati dai diabolici meccanismi della spietata (e funambolica) concorrenza pubblicitaria. Finirà, in sostanza, senza neanche più quei venti secondi di luna. Finirà con la morte definitiva del bambino e del sognatore che è in ciascuno di noi.

Riletture. “Persuasione” di Jane Austen

“Era stata costretta alla prudenza nella prima giovinezza, con il passare degli anni aveva imparato ad essere romantica: naturale conseguenza di un innaturale inizio”

La 27enne Anne Elliot (un tempo “una fanciulla molto graziosa, ma la sua giovanile bellezza era presto sfiorita”), orfana di madre e figlia del narciso Sir Walter è reduce da una decisione che l’ha segnata all’età di 19 anni: si è lasciata persuadere da Lady Russell, cara amica della madre, e da suo padre a rinunciare a Frederick Wentworth, uomo di classe sociale inferiore e non ancora affermato. La sorte, però, farà di nuovo incontrare i due vecchi innamorati con una situazione a parti quasi inverse. Infatti l’inetto e debosciato Sir Walter è dovuto trasferirsi, oberato dai debiti, a Bath ed è stato costretto ad affittare la propria magione all’Ammiraglio Croft cognato, guarda caso, di Frederick che è riuscito a fare carriera in marina e dispone ora di un adeguato status sociale e di una cospicua rendita. Anne e Frederick, hanno davanti a loro una seconda chance, all’insegna di maturità e consapevolezza riguardo agli errori del passato. Dite che anche stavolta se la lasceranno scappare?

“Persuasione”è l’ultimo romanzo di Jane Austen pubblicato postumo nel ’18, quello riguardo al quale la scrittrice scrisse in una famosa lettera che “l’eroina mi è venuta fin troppo bene”. Anche se oggi sappiamo molto (ma ancora tanto c’è da scoprire) sul carattere della Austen, possiamo dire che Anne Elliot è la protagonista femminile dei suoi romanzi che più le assomiglia per raggiunta avvedutezza ed equilibrio tra “ragione e sentimento”, per colta raffinatezza e per la dolce malinconia che la contraddistingue. Un’eroina insolita, Anne Elliot, tra quelle tracciate dalla scrittrice di Steventon, capace di compiere il percorso opposto a quello delle “colleghe” che iniziavano incendiarie per finire pompiere ovvero ricondotte a più miti consigli che vuol dire in seno al buon senso (il grande valore-feticcio del Settecento); un percorso di formazione influenzato dalla sensibilità romantica dell’epoca (un romanticismo sempre misurato e “settecentesco”, quello della A. non dobbiamo dimenticare) che la porta a riconsiderare gli eccessi di prudenza giovanili in favore di un inaspettato slancio da adulta. Qui, ad essere decisivo, è anche l’ambiente termale di Bath, (località spesso frequentata da Jane Austen ma sempre vissuta con distacco e fastidio per il suo essere essenzialmente nulla più che una vacua vetrina del bel mondo inglese dell’epoca) epicentro dell’amore che si riaccende tra i due giovani adulti facendo di Anne un coacervo di sentimenti potenti e contrastanti quali l’agitazione, la sofferenza (per la ferita, a distanza di anni, non ancora rimarginatasi), la felicità, il senso di inadeguatezza, la vergogna per la debolezza mostrata otto anni prima e via dicendo. Rispetto e amicizia lasciano ben presto spazio a quella tenerezza reciproca di un tempo così che questo amore mai sopito che ora si ripresenta si avvalga di due snodi narrativi fondamentali come notava Pietro Citati in un celebre articolo apparso cinque anni fa sul “Corriere della Sera”: il dialogo sullo scontro tra i sessi nel finale del libro tra Anne e il Capitano Harville in cui è difficile non notare gli echi del pensiero femminile dell’autrice:

“(..) Certo noi non vi dimentichiamo così presto come voi dimenticate noi. Forse è il nostro destino, piuttosto che il nostro merito. Non possiamo farne a meno. Viviamo in casa, quiete, recluse, inermi prede die nostri sentimenti. Voi siete per natura costretti all’azione. Avete sempre una professione, degli interessi, affari di vario genere che vi riportano immediatamente nel mondo, e la continua attività, il costante mutamento fanno sì che presto le vostre emozioni si attenuino. (..) L’unico privilegio che rivendico per il mio sesso è quello di amare più a lungo, anche quando la stessa esistenza o la speranza sono svanite per sempre”.

dove Anne rivendica a sé e al proprio sesso la capacità (insieme anche a tutte le sofferenze che ne conseguono) di amare più a lungo degli uomini; e quello, poco oltre, della lettera di Frederick ad Anne in cui il giovane dice: “Non osate dire che gli uomini dimenticano prima delle donne, che l’amore di un uomo muore più precocemente. Non ho amato che voi. Posso essere stato ingiusto, debole e pieno di risentimento, ma mai incostante”.

E’ un botta e risposta a distanza densissimo e tesissimo in cui ciascuno dei due rivendica la fedeltà al proprio sentimento nonostante il trascorrere del tempo e il venire meno della speranza; un climax di sentimenti come di rado se ne trovano in Jane Austen che, non senza una punta di ironia, sottintende non tanto un invito a lasciarsi andare alle ragioni del cuore (perché, come indicato nell’opera, in Anne c’è la consapevolezza che il suo amore necessitasse di quegli anni di maturazione per dotarsi di quella saldezza cui approderà) quanto la lezione a non abbandonare mai la propria autonomia decisionale, ad accettare i consigli delle persone care senza però lasciare che la propria capacità di giudizio abbia ad esserne influenzata. E’ una nuova, per l’epoca, sensibilità femminile, in anticipo di un secolo abbondante che, con tutti i distinguo e le dovute precauzioni, fanno con questo romanzo della Austen una proto-femminista che non ambisce a scardinare l’assetto sociale ma semplicemente (e non è poco) a rivendicare con forza e orgoglio un punto di vista letterario e di donna ed è significativo, a tal riguardo, questo passo con cui chiudiamo:

“(..) Gli uomini hanno avuto ogni vantaggio su di noi nel raccontare la propria storia. Hanno sempre beneficiato del privilegio dell’istruzione, in un grado molto più alto di noi; la penna è sempre stata nelle loro mani”. E’ ora, in sostanza, dice la Austen, di cambiare registro. Nasce la letteratura al femminile.

Nell’immagine, il Camden Crescent di Bath

Persuasione – J. Austen, traduz. L. Pozzi – Garzanti 2008, 261 pag. – 8,00 €

Vita contro Profitto: un “pensiero” leopardiano

Havvi, cosa strana a dirsi, un disprezzo della morte e un coraggio più abbietto e più disprezzabile che la paura: ed è quello de’ negozianti ed altri uomini dediti a far danari, che spessissime volte, per guadagni anche minimi, e per sordidi risparmi, ostinatamente ricusano cautele e provvidenze necessarie alla loro conservazione, e si mettono a pericoli estremi, dove non di rado, eroi vili, periscono con morte vituperata. Di quest’obbrobrioso coraggio si sono veduti esempi insigni, non senza seguirne danni e stragi de’ popoli innocenti, nell’occasione della peste, chiamata più volentieri cholera morbus, che ha flagellata la specie umana in questi ultimi anni.

                                                                                           [G. Leopardi, Pensieri VII, 1845]

 

Sarà che del coronavirus si fa e si è fatto un gran parlare tanto da aver ormai monopolizzato il nostro attuale immaginario per un tempo che sarà complicato stimare breve ma tant’è che leggendo (o rileggendo) questo “pensiero” leopardiano di quasi due secoli fa è impossibile non venire trasportati nel nostro contingente e, in particolare, in quello che riguarda le modalità della gestione dell’emergenza e del post-emergenza. I “Pensieri” di Leopardi, appaiono postumi nel 1845, ordinati e scelti, però, da lui stesso col fine di esprimere una raccolta di considerazioni “sui caratteri degli uomini e sulla loro condotta in Società”. Duplice la natura degli estratti: da un lato un distillato, rivisto e corretto, del laboratorio zibaldoniano, dall’altro un gruppo di inediti lucidi e “glaciali” come ebbe a definirli Sergio Solmi capaci di elevarsi dal particolare all’universale sulla scia di quella vena aforismatica e polemica che aveva trovato nel periodo a cavallo tra Sei e Settecento la sua età dell’oro. Relativamente al pensiero riportato già un vecchio commentatore dell’opera, il Siebert (per l’edizione critica in lingua tedesca de “I pensieri” del 1896), rinviava a un frammento euripideo citato da Seneca ovvero:

“Avari hominis vox est, qui etiam vitam lucro postponit”

che, più o meno, in italiano suona così: “la vocazione dell’avaro è quella di anteporre il profitto alla vita”, focalizzando l’attenzione su quello che, per Leopardi (e non solo) è un mondo alla rovescia, un mondo degenerato, in cui le ragioni del profitto vengono, non solo contrapposte, a quelle della salute pubblica, ma addirittura poste avanti. Il serrato uso delle coppie ossimoriche “eroi/vili”, “coraggio/abbietto” rinvia a questa concezione di mondo “storto” che Leopardi aveva sperimentato direttamente con riferimento all’epidemia di colera (di cui accenna in una lettera a Monaldo del dicembre 1836) che, scoppiata in Francia nel ’32, era apparsa poi in Italia con le criticità che tutti sappiamo del biennio ’36-’37 a Napoli dove il marchigiano, dal 1833, risiedeva. Tema molto sentito questo in Leopardi delle pene e dei mali che affliggono l’umana natura aggravati dagli sconsiderati comportamenti dell’uomo e che ricorreva nel 1835 nella “Palinodia al marchese Gino Capponi”, componimento satirico in endecasillabi che deride le “magnifiche sorti e progressive” del secolo più fiducioso di tutti, l’Ottocento:

“Universale amore, / Ferrate vie, moltiplici commerci, / Vapor, tipi e choléra i più divisi / Popoli e climi stringeranno insieme”  (vv. 42-5)

A cui fa eco quanto scritto già nel finale del Pensiero I, in cui Leopardi pone l’accento oltre che sull’immutabilità dei comportamenti e dei mali umani anche sul rifiuto di chiamarli col proprio nome e di farsene carico per volgerli al bene:

“(..) Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso,  quanto chi lo nomina. In modo che più volte, mentre chi fa male ottiene ricchezze, onori e potenza, chi lo nomina è strascinato in su i patiboli; essendo gli uomini prontissimi a sofferire o dagli altri o dal cielo qualunque cosa, purchè in parole ne sieno salvi”.

L’eterno dissidio tra tutela della salute pubblica di fronte al manifestarsi di un fenomeno pandemico e quello della garanzia di continuità del profitto privato che ogni governo dei popoli è chiamato ad affrontare, ritornando ai giorni nostri, è di nuovo esploso in termini drammatici con accuse da più parti all’indirizzo dell’esecutivo da un lato di non essersi adoperato a sufficienza per arginare tempestivamente i rapidi focolai in espansione e, dall’altro, di aver impedito a tante piccole attività commerciali, industriali, ecc. giudicate di non rilevanza strategica di poter restare aperte. Un esempio su tutti per la natura paradigmatica del fenomeno e di quanto finora detto è l’inchiesta portata avanti dalla Procura di Bergamo sulla mancata istituzione, da parte del governo, delle cosiddette “zone rosse” ad Alzano e Nembro due grossi epicentri del contagio covid-19 e che sta vedendo un rimpallo di colpe tra Regione Lombardia e governo centrale per il quale gli inquirenti hanno ritenuto opportuno ascoltare le testimonianze di Conte, Speranza e Lamorgese. Qui non è il caso di ripercorrere tutte le tappe del contagio e dei provvedimenti presi tra il 21 e il 23 febbraio a partire da Codogno (Lodi) o da Vo’ (Padova) ma è bene rimarcare come in Val Seriana questa “solerzia” e tempestività non si siano assolutamente manifestate. Già il 26 febbraio, infatti, le mancate cautele causavano i primi 20 casi di contagio nella provincia di Bergamo con i 508 casi certificati al 2 marzo e nonostante politici e confindustrie (nazionali e locali) facessero di tutto per ridimensionare il fenomeno. Nonostante le note dell’ ISS che consigliavano la chiusura della Val Seriana (area ad elevatissima densità industriale, uno dei cuori pulsanti del manifatturiero italiano), Gallera temporeggiava e gli altri a Milano, Bergamo, Roma non erano da meno per le evidenti pressioni economiche. Quando, tra il 7 e l’8 marzo esercito e compagnia bella era pronto a chiudere tutto, ecco che si inizia a parlare, per queste e altre 14 province di “zone arancioni” (quindi a restrizioni molto inferiori alle “rosse”) fino a che, nelle successive ore tutto precipita e col primo Dpcm del 9 marzo tutta l’Italia viene trasformata in “zona protetta”. Contagiati e morti però esplodevano e regalavano alla provincia di Bergamo il triste primato di mortalità e di casi accertati. Nonostante l’inchiesta, al momento, non abbia indagati, sarebbe bene che si facesse luce su cosa non è andato in Val Seriana rispetto al lodigiano e al padovano e sulle responsabilità occorse. Resta però più di un dubbio, e qui chiudiamo, sull’effetto devastante per la vita della fascia di popolazione più debole delle pressioni ricevute dagli amministratori per ritardare il lockdown o comunque limitarne al minimo gli effetti sulla produzione da parte dei locali potenti capitani d’industria.