Tra casalinghe di Voghera e Divin Marchese/ “Specchio delle mie brame” – A. Arbasino

Protagonista della “deplorevole trama kitsch che dovrebbe rappresentare una inammissibile e irriferibile e irrimediabile tragedia familiare e stilistica” composta da Alberto Arbasino (scomparso pochi mesi fa) nell’ormai lontano 1974 è una regina matrigna, malvagia e gelosa per eccesso di vanità (come quella, celebre, della storia di Biancaneve), una “Divin Marchesa” “letteralmente uscita dalle voluttuose pagine del Verga più frivolo e mondano”, avida, capricciosa, impaziente, selvaggia e al contempo raffinata, in altre parole la baronessa sicula Stefania. Di giorno austera e morigerata amministratrice della tenuta di famiglia, pur dispotica e implacabile con i figli adolescenti Francesca e Fulco, anime per nulla candide; di notte, indomita “Tigre reale” all’insegna del cliché più pecoreccio e sporcaccione della commedia-farsa all’italiana, incorreggibile libertina sado-maso che ha l’abitudine a tenersi in allenamento con l’istitutore di Fulco, Michele, “nero giovanottaccio e fustone, “eroe nudo da western pornografico”. A turbare l’equilibrio erotico imbastito da Arbasino in questo romanzetto pregno di “un po’ di illuminismo decadente e di libertinaggio vieux jeu o nouveau riche” all’insegna del miglior profondo Sud della letteratura italiana a cavallo tra Otto e Novecento, arriva però l’atletica e ben poco compassata nuova istitutrice gallese Judy carpita, come tutti gli altri, dal canone di genere (e, nel nostro caso, quindi, più che dal James di “Giro di vite” da quello delle eroine femminili dell’ erotomane D.H. Lawrence) e rimescolata nel cliché allusivo (e meno) del minestrone letterario “basso” (ma è aulico e gaddiano l’uso della lingua di questo divertissement, si badi): ne discende, come ovvia conseguenza, l’abusatissimo mitologema del ménage à trois, frutto avvelenato delle trame baroniali dopo il fallimento della carta “sperelliana” (con cui sbollire la Judy e lasciando così libero e tutto per Stefania il toro da monta Michele) del dannunziano tombeur de femmes Don Cecilio richiamato sulla rive gauche in fretta e furia dalle insistenze dei creditori stanchi di accettare cambiali per gli eccessi da Capponcina. Che poi così avvelenato l’escamotage non è, semmai divertimento amplificato e rafforzamento dell’incantesimo che tutti tiene soggiogati alla diabolica vedova, per trasposizione, metafora bunueliana del sempiterno “fascino discreto della borghesia” (con Michele e Judy che si lasciano irretire senza colpo ferire) e vivido atto d’accusa alla classe che, sostituendosi a quella aristocratica, ne ha perpetrato nel tempo manie e abusi. “Specchio delle mie brame” (Adelphi, collana Fabula 1995, 169 pagg. 14,00 € ma attualmente non disponibile) è una grande operazione di riciclaggio di materiale letterario e relativi stereotipi di genere al servizio del messaggio di fondo che è la ridicolizzazione dell’idea di Progresso storico e di Sviluppo, una critica volutamente scomposta e ridanciana all’intellettualismo borghese e alle sue pretese di classe-guida. Malinconico e disincantato, pur nel gioco di specchi, finzioni e coup de theatre, emette, per orecchie sensibili, echi landolfiani e manganelliani. Forse semplice intermezzo ludico, di certo operazione corrosiva e avanguardistica in un’epoca in cui quest’ultima parola conservava ancora un senso.

Un Lazarillo de Tormes tra le maglie della macchina burocratica fascista / “Vedrò Singapore?” – Piero Chiara

Un ingrato destino ha voluto che di Piero Chiara, oggi, se ne senta parlare solo (di riflesso, magari) tra gli addetti ai lavori e gli specialisti del secondo Novecento italiano, relegando il grande scrittore luinese nel ristretto novero dei cosiddetti “scrittori per scrittori”. Non sta a noi indagare le ragioni di tale oblio, di cui siamo stati noi stessi vittime prima che un fortunoso rinvenimento in un polveroso scaffale bibliotecario ci disvelasse l’esistenza di un autore a suo tempo vero e proprio fenomeno di massa anche grazie a celebri trasposizioni cinematografiche tratte dalle sue opere, ma è nostro compito, certamente, tentare, in questa infinitesima sede, di apportare un minuscolo contributo al ripescaggio di un grande indagatore della provincia italiana nei due fittissimi decenni costituiti dagli anni Sessanta e Settanta. Ma andiamo con ordine e, misconosciuti ai più, cominciamo con l’offrire dei brevi cenni biografici su Chiara, nativo di Luino (area Lago Maggiore, provincia di Varese) nell’anno 1913, da padre siciliano di professione doganiere e da madre piemontese piccola esercente di ceste ed ombrelli. Irrequieto e indisciplinato, Piero Chiara compie con alterne fasi i propri doveri di studente riservandosi un approfondimento da autodidatta per quanto riguarda la letteratura e viaggiando molto, tra Francia e Italia, tra svariati e saltuari lavori e intense frequentazioni fino, accontentando le richieste dei genitori, ad impiegarsi, sul finire del ’32, come aiutante di cancelleria nella pretura di Pontebba, al confine tra Alpi Carniche e Giulie, nella Val Canale, tra l’allora Regno d’Italia, l’Austria e il Regno di Jugoslavia, per poi finire trasferito ad Aidussina (oggi,Ajdovscina, di poco, Slovenia) e poi Cividale del Friuli. Colto in flagrante in approccio amoroso con un’amante sul luogo di lavoro, dopo diversi mesi di aspettativa, si ritrova trasferito nella sua Varese dove inizia a collaborare con riviste letterarie e contrae un fulmineo matrimonio. Nel ’44 deve riparare in Svizzera a seguito di un ordine di cattura del Tribunale Supremo fascista per un gesto politico di irriverenza. Poi, dopo la guerra, il ritorno e l’inizio di un’intensa attività letteraria il cui apice sarà raggiunto con “La stanza del vescovo” (1976) da cui Dino Risi trarrà anche un celebre film con Ugo Tognazzi nel ruolo di un patetico e malinconico piccolo borghese, replicato qualche anno dopo l’altro noto adattamento da Chiara, dal romanzo “La spartizione” (1964) di Alberto Lattuada con “Venga a prendere il caffè da noi” (1970). Piero Chiara muore nella sua Varese il 31 dicembre 1986 ricordato con l’istituzione, dopo pochi anni, di un prestigioso premio letterario a lui dedicato. //  Il romanzo di cui parliamo oggi è Vedrò Singapore?” (1981), opera matura intrisa di un evidente autobiografismo nel ripercorrere le vicende di un modesto impiegato dell’amministrazione giudiziaria italiana degli anni Trenta inviato al confine italo-jugoslavo tra aporie, inefficienze, crisi esistenziali, disinganni, atmosfere plumbee e repressive (incarnate dal fantomatico e ubiquo Alto Commissario Speciale per la Giustizia tal Gennaro Mordace), calcoli di infimo cabotaggio della profonda provincia impiegatizia (e non) di quell’epoca. Un po’ inetto sveviano (senza però le nevrosi e gli psicologismi del noto triestino) un po’ vitellone attratto dal buon bere, dal gioco delle carte e dalle conquiste femminili, il protagonista, per il tramite dell’arguta, ironica e malinconica penna di Chiara, compie la sua iniziazione alla vita, alla politica (sposerà, grazie a temporanei ma intensi incontri, un blando antifascismo), alla sessualità, ai travagli dell’etica (col tentativo di “salvare” la cassiera del Caffè Longobardo di Cividale, Ilde, dalla promettente carriera di meretricio) in una picaresca sarabanda di colpi di scena al termine dei quali otterrà finalmente soddisfazione dalle angherie subite dal terribile Mordace ma dovrà rinunciare al proprio stipendio sicuro in attesa di imbarcarsi sul mercantile “Adelaide Tarabocchi”, pronto a toccare i più che esotici porti di Porto Said, Suez, Bombay, Colombo e… la Singapore del titolo. Prima, chissà, della possibilità, per lui, di tornare “alle onde del Lago Maggiore” in un afflato nostalgico degno del miglior Renzo Tramaglino. //  La scrittura di Piero Chiara, dotata di pazienza metodica e di lieve grazia d’altri tempi, restituisce nei suoi vividi colori il grigio quadro della provincia fascista e della sua umanità in attesa dell’atto finale della recita del regime, deprecando sommessamente la rinuncia alla vita e le pulsioni statiche degli sfiduciati a vita, col punto di vista di un moderno Lazarillo de Tormes (non citiamo a caso visto che Chiara era un grande estimatore dell’opera) dall’insaziabile sete di vita e avventure e immune alle costrizioni morali, sociali e politiche. In questo periodo di chiusure forzate causa covid, futuro incerto nella cornice di un presente atono e claustrofobico, obbligata rinuncia a mobilità e socializzazione, un romanzo capace di farci scorrazzare in lungo e in largo nei tempestosi mari del Sud, tra loschi pirati in giacca e cravatta, ambigue e ciniche vivandiere, affidabilissimi antieroi, il tutto stando comodamente seduti in poltrona.

Vedrò Singapore? – Piero Chiara – Mondadori 2013 – XLIII, 193 pag. – 10,00 €

Confessioni contagiose / “Diceria dell’untore” – Gesualdo Bufalino

Estate 1946. In un sanatorio della Conca d’Oro palermitana dove “non c’era giorno o notte che la morte non m’alitasse accanto la sua versatile e ubiqua presenza” un reduce di guerra “con un lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo” ripercorre, tra equivoche confessioni e angosce esistenziali sul filo del sottile confine tra vita e morte, quel tempo smarrito e febbricitante trascorso, nella claustrofilia obbligata, in compagnia di singolari personaggi minati tutti da un senso di condanna e ineluttabilità ma uniti anche da un ultimo afflato di vitalità. Tra questi incontri di fugace familiarità svettano il dottore dell’istituto, Mariano Grifeo Cardona di Canicarao, “il Gran Magro” dalla mania citatoria, Padre Vittorio, ex-cappellano militare dalla fede ormai vacillante e infine, su tutti, lei, Marta Blundo, latrice di un passato oscuro e drammatico, ex-ballerina e chissà quant’altro, “un’esclusa, un’anima persa: giusto la socia che mi serviva”, lei che “parlava, parlava, ma io non avanzavo di un passo verso il cuore della nebulosa, ch’era lei”. Libro scritto nel 1950 (a partire da un’esperienza autobiografica), poi ripreso e concluso definitivamente nel ’71, infine pescato da Sciascia e proposto dieci anni dopo per Sellerio (subito Premio Campiello), “Diceria dell’untore” segna il folgorante e maturo esordio alla scrittura romanzesca di uno dei più dotati scrittori siciliani del Novecento, Gesualdo Bufalino (1920-96). Che qui offre la prima prova del suo baroccheggiante lirismo linguistico, con gran scialo di aggettivi, sfoggio di colori e tinte, opulenze da glottologo, prendendo un mondo scarnificato (dalla doppia offesa costituita dalla guerra e dal morbo nemico) e restituendocelo carico di presenze sanguigne, sentimenti vitali, slanci di speranza “per rendere testimonianza, se non delazione, d’una retorica e d’una pietà”. Una “diceria” custodita come un segreto e portata lungo gli anni “al sicuro sotto la lingua” fino al momento in cui viene rivelata, sparsa come contagio da “untore” cui rimane, da sopravvissuto, solo, di rendere noto a tutti quel periodo di “noviziato nel regno delle ombre”. Restituire verbalmente e lessicalmente, con grande attenzione alla musicalità di ogni lemma recuperato dall’uso arcaico e introdotto in un unicuum armonico di resa di un mondo umbratile e rarefatto, l’immaginario vitale e colorato di un gruppo di (con)dannati, anime purgatoriali in lotta col tempo, morti in balìa dei vivi per reclamare un ultimo posto nel mondo, è la grande sfida di Bufalino la quale troverà la massima espressione nel duello tra eros e thanatos della relazione con Marta, lei tutta concentrata nell’hic et nunc e in fuga da un passato terribile quanto impossibile da giudicare e condannare, dea della vita e dalle infinite proiezioni. Inattualissima e tardo-decadente metafora dell’animo umano e della condizione esistenziale, di problematico candore e ingenua attesa sulle soglie della notte, la “Diceria dell’untore” rimane a tutt’oggi (e tanto più nel centenario della nascita di Bufalino) un’opera di frontiera e coraggiosissima, confessionale e piena di reticenze, sontuosa e pietrosa, un piccolo miracolo di luce.

Nell’immagine, vecchia veduta della Conca d’oro da reportagesicilia.blogspot.com

Diceria dell’untore – G. Bufalino – Bompiani 2016, XIX-203 pag. – 12,00 €